mercoledì, aprile 24, 2024

Davide Bowie Mod Years

Un estratto da un'intervista a David Bowie nel 1983 a cura di Timothy White in cui David Jones (nome utilizzato all'epoca) parla dei suoi ANNI MOD.

Raccontami dell'adolescenza, della tua prima adolescenza.
Avevo la tipica voglia di rompere i legami con la casa e i genitori, la classica rabbia giovanile.
Ho un fratellastro e una sorellastra, a nessuno dei quali sono mai stato particolarmente legato, perché non hanno mai vissuto a casa. Sono stato allevato apparentemente come figlio unico.
Ho perso i contatti con la mia sorellastra Annette quando avevo 12 anni, è stata l'ultima volta che l'ho vista, era molto più grande di me ed è andata in Egitto per sposarsi.
Da allora nessuno di noi ha più avuto sue notizie e abbiamo cercato di rintracciarla.
Ho vissuto a Brixton fino all'età di 11 anni, e questo mi è bastato per rimanerne molto colpito.
Ha lasciato nella mia mente immagini grandiose e forti.
Poiché la musica che nasceva nella mia prima adolescenza si svolgeva a Brixton, era il luogo con cui si aveva un rapporto continuo.
Tutti i club ska e bluebeat erano a Brixton, quindi uno gravitava lì.
Inoltre era uno dei pochi posti in cui suonavano dischi di James Brown, a parte due club francesi in città, La Poubelle e Le Kilt.
Un mio amico, Jeff McCormack, che finì con il nome di Warren Peace in "Diamond Dogs", aveva una grande collezione di dischi ska, e non valeva la pena competere con lui, così decisi di comprare Chuck Berry, Little Richard e altre cose blues.

Gli adolescenti bianchi erano i benvenuti agli Shebeens (locali illegali, diffusi nelle comunità black londinesi) ?
A quel tempo era cool.
Se esprimevi interesse per la musica e ti divertivi con quello che succedeva nei club, era molto più facile essere accettati, immagino di quanto non lo sia oggigiorno.
Anche se non lo so, non vado in quei club da anni.
Non sono quasi mai stato a Londra in termini sociali e di vita per così tanto tempo, che ora è quasi una città estranea per me, il che è un peccato per certi aspetti, ma ne perdi alcuni e ne guadagni altri.

All'inizio della tua carriera hai trascorso molto tempo nel leggendario Marquee Club, che aveva serate R&B settimanali con artisti come Sonny Boy Williamson e gli Yardbirds.
Com'era quella scena nei primi anni '60?

Ho fatto amicizia con i proprietari; per me non c'erano regole quindi entravo furtivamente e guardavo cosa succedeva.
Il Marquee, The Scene, l'Eel Pie Island a Twickenham, erano tutti un circuito.
All'epoca avevo 16 anni, per me che frequentavo spesso quei posti era l'era dei primi mod.
C'erano due scene di Mods in Inghilterra, la prima risale al 1962-63.
Il gruppo iniziale si definiva modernista, ridotto poi a mod.
Questi non erano i modelli con "anorak" imbottito e impermeabili in gabardine che sono comparsi più tardi con gli scooter.
A quel tempo il mondo degli scooter non era così importante per i primi mod. Si girava ancora con i mezzi pubblici.
I primi mod indossavano abiti molto costosi; molto, molto eleganti. E il trucco ne era una parte importante: rossetto, fard, ombretto e una vera e propria cipria. Era molto in un'ottica dandy, amavano James Brown. Elitario. Le pillole hanno sempre avuto un ruolo importante; era tutto veloce.
Non dovevi amare gruppi come i Rolling Stones, e soprattutto gli Action, gli Who e tutta quella folla che arrivò dopo, che piaceva ai ragazzi con i parka della fine degli anni '60 che non erano dei veri mod.
Li ascoltavi di nascosto. Ma mi sentivo triste perché la moda precedente era ormai scomparsa.
Ho vestito l'archetipo: abiti di mohair, abiti bicolore; le scarpe erano di grande valore; Camicie Billy Eckstine con grandi colletti rivoltati. O avevi un colletto appuntato o abbottonato o arrotolato.

Come guadagnavi i soldi per vestirti?
(Ridacchiando, strizzando l'occhio) I soldi li ho guadagnati in un modo o nell'altro, trafficando.
Inoltre, una cosa usuale era andare sul retro di Carnaby Street a tarda notte e razziare i bidoni della spazzatura.
Perché a quei tempi se qualcosa mostrava il minimo segno di deterioramento o mancava un bottone o c'era la minima cosa che non andava, la buttavano, così potevi raccogliere un sacco di roba fantastica.
Questo accadeva proprio mentre la strada (Carnaby St) stava diventando popolare.
In effetti, c'erano solo quattro negozi lì che vendevano vestiti di quel tipo, quindi non era una cosa turistica a quel tempo.
Inoltre, potevi farti fare dei bei vestiti a Shepherd's Bush.
C'erano bravi sarti che confezionavano un abito velocemente e a buon mercato, con tessuti (grande sorriso) che non ti chiedevi come potessero ottenere così a buon mercato.
Quindi ti vestivi, andavi al Marquee Club e impazzivi ascoltando rhythm'n'blues.
Fondamentalmente era un periodo rhythm'n'blues, che aveva appena colpito alla grande l'underground.
All'epoca dei mod non ero interessato al cento per cento alla musica, ma suonavo il sassofono da quando avevo 13 anni, di tanto in tanto.
Le cose che avevo considerato di fare una volta lasciata la scuola erano continuare a fare il pittore, iniziare a lavorare in un'agenzia pubblicitaria o fare il musicista se fossi riuscito a diventare così bravo.

Il manager Kenneth Pitt ti aveva visto al Marquee Club quando avevi 18 anni e guidavi una band chiamata David Jones & the Lower Third. Che tipo di gruppo erano i Lower Third?
Immagino che volesse essere una band rhythm'n'blues.
Abbiamo fatto un sacco di cose di John Lee Hooker, e abbiamo provato ad adattare le sue cose al beat, senza però tanto successo.
Ma questo era il punto; tutti sceglievano un artista blues come proprio. Qualcuno aveva Muddy Waters, qualcuno aveva Sonny Boy Williamson.
Il nostro era Hooker.
È stata anche la prima band in cui ho iniziato a scrivere canzoni.
Penso che la prima canzone che ho scritto ma ce ne potrebbero essere altre, ma questa è l'unica che risalta, si intitolava "Can't Help Thinking About Me" (scoppia a ridere).
È un piccolo pezzo illuminante, non è vero?
Si trattava di lasciare casa e trasferirsi a Londra.
"The London Boys" era un'altra canzone sull'essere un mod, era una canzone contro le pillole.
Dopo un po' non ero più particolarmente favorevole alla cosa.

martedì, aprile 23, 2024

Luca Garrò - I folli del rock. Storie di geni tormentati, sostanze e sregolatezza

Il rock annovera una lunga casistica di "folli" (artisticamente parlando ma soprattutto in relazione allo stile di vita) che hanno lasciato testimonianze di ogni tipo in tal senso.
Sarebbe stato facile fare un elenco di episodi più o meno bizzarri per soddisfare senza problemi la curiosità/morbosità del lettore.
Garrò invece affronta la tematica in chiave "medica" e soprattutto esistenziale.

"Siamo così abituati a pensare a un certo prototipo di musicista in termini esclusivamente di eccessi, nichilismo e autodistruttività da dimenticare spesso di trovarci di fronte a esseri umani come noi, con le nostre stesse paure, fragilità e ossessioni.
Che talvola abbiamo bollato come eccentrici, disinibiti o viziosi e che magari abbiamo invidiato per il loro successo e per una vita apparentemente fatta di tanti privilegi e nessuna responsabilità, ma i cui comportamenti spesso non erano altro che sintoni di un disagio sconosciuti al pubblico."


Si parla di 20 artisti, da Amy Winehouse a Brian Wilson, Syd Barrett, GG Allin, Ozzy Osbourne, David Bowie, Roger Waters, Lou Reed etc.

Storie spesso tragiche e tristi che fanno dimenticare l'enfasi della patina "rock 'n' roll" tanto amata dalla narrazione abituale.
Libro ben fatto pur nella mancanza del più rappresentativo dell'ambito: Keith Moon.

Luca Garrò
I folli del rock. Storie di geni tormentati, sostanze e sregolatezza
Diarkos
258 pagine
19 euro

lunedì, aprile 22, 2024

Linton Kwesi Johnson

Riprendo l'articolo che ho scritto ieri per "Libertà", quotidiano di Piacenza, nell'inserto culturale "Portfolio", diretto da Maurizio Pilotti.

Linton Kwesi Johnson non è un nome particolarmente noto in Italia.
Ma è uno dei principali poeti (trasposti in musica) della tradizione anglo/giamaicana ovvero degli immigrati in Gran Bretagna negli anni Sessanta dalle colonie delle West Indies (nazioni poi diventate progressivamente indipendenti dei Caraibi).
Cittadini inglesi che trovarono nella “madre patria” invece che accoglienza e solidarietà, razzismo e discriminazione.

Nato poverissimo in Giamaica, Linton si trasferisce con la madre a Londra nel 1963, a 11 anni. Trova, a sorpresa, una vita dura, costretto a fronteggiare un razzismo esplicito, la creazione di ghetti, la separazione culturale e sociale tra bianchi autoctoni, eredi dell'Impero e quelli che sono stati sudditi fino a poco tempo prima.
“La mia esperienza è il frutto di un’infanzia tropicale e contadina prima e della vita in una città industriale dove i neri vivono in condizioni coloniali, poi. Quando arrivai a Brixton mi aspettavo grandi strade, case belle, gente ricca. Arrivavo da un piccolo paese rurale e sbarcare a Londra fu un grande shock. Fui sorpreso nel vedere bianchi che pulivano le strade, in Giamaica erano tutti ricchi e li chiamavamo signori o padroni. Anche le case mi sembravano tutte fabbriche con i comignoli che buttavano sempre fumo. A scuola ho fatto la mie prima esperienze col razzismo. Credevo veramente che i bianchi fossero brava gente, invece i ragazzini mi chiamavano sporco negro e gli insegnanti facevano commenti razzisti tipo: “Dove credi di essere nella giungla?”.

Lo stesso senso di straniamento che troviamo nella maggior parte degli immigrati dalle West Indies, soprattutto dopo l'indipendenza ottenuta dalla Giamaica dal Regno Unito nell'agosto del 1962.
Linton studia e si laurea in sociologia, approfondisce l'impegno politico e culturale, nel 1973 entra a far parte delle locali Black Panther, lavora e incomincia a impegnarsi nella scrittura, anche musicale, grazie alla quale approda come recensore alle riviste Melody Maker, New Musical Express, Black Music, oltre a scrivere note biografiche per gli artisti reggae della Virgin Records.
Ma é la poesia che lo attrae e coinvolge di più, che diventa il tratto distintivo della sua forma di creatività, destinata ad essere unica. Utilizza un linguaggio duro, aspro, abrasivo, diretto, senza mezzi termini, che fonde cultura caraibica con una cupa visione di un'Inghilterra industriale e spietata che sta per entrare nei terribili anni Tatcheriani.

Il linguaggio attinge dal Patois giamaicano, imbastardimento dell'inglese, mischiato a parole e assonanze creole. Ma ha bisogno di una musica di accompagnamento, ovviamente il reggae, a cui provvederà il grande Dennis Bovell.
“Non sono un musicista, sono un poeta che però lavora in una tradizione dove la musica e le parole sono una parte integrante e le influenze maggiori sono caraibiche e di poesia orale. Le mie esperienze di poeta sono frutto di un'infanzia contadina. Nei Caraibi i bambini conoscono centinaia di giochi e storielle in rima. Quando incominciai a scrivere, la musica si insinuava tra le righe della poesia, le parole mi venivano sempre in mente accompagnate da un giro di basso. Nel reggae il basso dà anche la melodia, non soltanto il ritmo e quando compongo ho sempre dentro un giro di basso. Partendo da questo, aggiungo la batteria e quindi decido il tempo. In seguito decido se metterci delle tastiere, dei fiati o qualche assolo di chitarra e ne discuto coi musicisti durante la registrazione”.

“Dread Beat an' Blood” é il suo primo successo letterario, nel 1975, e sarà la base per il fulminante, omonimo, esordio discografico del 1978, tra heavy dub, reggae e parole pesantissime.
Verrà definita “Dub Poetry”, una sorta di genere che avrà importanti seguaci. "Per me scrivere poesie è un atto politico. Un modo di articolare la rabbia e il dolore della mia generazione, cresciuta come gioventù nera in un ambiente razziale ostile. Ero consapevole che l'educazione era l'unica via d'uscita dalla povertà per uno come me."
Seguiranno album di sempre maggior successo e spessore ma soprattutto di enorme importanza letteraria, che lo consacreranno tra i più rappresentativi cantori dell'Inghilterra dei neri e degli oppressi.
In particolare “Bass Culture” del 1980 con l'immortale e sferzante inno “Inglan is a bitch”: “L'Inghilterra é una puttana / non si può evitarlo /non c’è modo per scappare/ dobbiamo imparare a sopravvivere”.

“E' la cultura popolare giamaicana che mi ha permesso di resistere in Inghilterra. Furono le mie radici e la mia lingua un'arma da usare contro la cultura del razzismo in Gran Bretagna. Stavo cercando di trovare un ponte tra l'inglese standard e il giamaicano parlato. Molta poesia dell’epoca suonava come se i Caraibi cercassero di sembrare americani, un po’ come quelle canzoni di Mick Jagger in cui cerca di cantare come se venisse dal profondo sud. Per me, ciò che era importante era l'autenticità della voce. Non volevo emulare nessun altro. Volevo che suonasse come me.”

Trova il supporto anche della scena punk, notoriamente ben predisposta nei confronti degli artisti reggae, con cui molte band hanno collaborato o da cui hanno preso grande ispirazione (Clash, Police, Ruts, Stiff Little Fingers tra i tanti).

“Nel 1978 mi trovai a suonare prima dei Public Image LTD, il nuovo gruppo di Johnny Rotten appena uscito dai Sex Pistols. C’ero solo io sul palco con un registratore con le basi e davanti a me un oceano di punk. Volevo scapparmene ma con mia grande sorpresa piacqui tantissimo”.

Nel tempo si è faticosamente rifatto dalle sofferenze subite diventando progressivamente una figura sempre più importante, seguita e rispettata, anche in quelle istituzioni da cui era stato osteggiato e che a sua volta aveva aspramente criticato.
Nel 1981 forma l’etichetta indipendente LKJ Records con cui spinge artisti reggae emergenti. Nel 1982, conduce un programma per la BBC From Mento to Lovers Rock in cui affianca musica e disamine sociopolitiche sulla situazione inglese.
Nel 2002 è il secondo poeta vivente ed il primo di colore ad essere pubblicato dalla Penguin Modern Classic Series, nel 2005 viene premiato con la medaglia di argento dall'Istituto della Giamaica per essersi distinto nell'arte della poesia. Sopravvive con molta difficoltà a un cancro che gli compromette parzialmente la carriera.
Negli ultimi anni infatti la sua presenza sulla scena si é sempre più diradata ma i semi piantati da anni hanno continuato a germogliare e a permettergli di raccogliere premi, onorificenze, tributi in tutto il mondo. Il suo concetto politico di “democrazia socialista” lo pone orgogliosamente in prima linea a fianco dei più deboli, delle vittime delle ingiustizie sociali e della brutalità della polizia, felice ed entusiasta nel vedere il recente sollevarsi della popolazione americana (e non solo) intorno al movimento del Black Lives Matter.

“Sono al settimo cielo per ciò che sta succedendo tra i giovani. Vengo da una generazione ribelle di attivisti che volevano cambiare il paese e sembra che questa nuova generazione stia proseguendo di nuovo su questa strada. Sono così felice di essere vivo per vederlo succedere. C'é stata una risposta enorme anche qui in Inghilterra perché il razzismo é nel sistema legale e c'é impunità nella polizia. Direi che il razzismo é parte del Dna culturale della Gran Bretagna.”

Allo stesso modo é sempre particolarmente lucido e pungente nella visione politica sulle scelte a livello mondiale e sulle prospettive riservate ai popoli:
"Trovo decisamente ironico che metà del mondo si preoccupi del disarmo nucleare mentre il resto del globo non è nemmeno consapevole che esista il problema. Le loro priorità hanno a che fare con la sopravvivenza giorno per giorno: trovare cibo, vestiti e un posto dove vivere, confrontandosi sempre con alcuni dei regimi più oppressivi e crudeli del mondo, massacri e fame."

Ha recentemente dichiarato che avere passato i settanta anni lo ha reso pigro e abitudinario ma non ha certo perso la sua visione nei confronti di un mondo che va verso l’autodistruzione, cercando sempre uno spirito positivo, in mezzo alla critica, spesso feroce, verso chi lo governa così male.
“Io sono un eterno ottimista. Lo devi essere. C’è sempre speranza, anche se sembra che stiamo facendo passi indietro in termini di giustizia sociale, immigrazione, povertà. Non so quanto leggano i giovani ma è importante informarsi su ciò che è accaduto prima perché la continuità è cruciale. Devi sapere da dove vieni per sapere dove stai andando.”

giovedì, aprile 18, 2024

Warren Zanes - Liberami dal nulla. Bruce Springsteen e Nebraska

Pur non essendo un grande fan di Bruce Springsteen, di cui ho sempre apprezzato poco, il libro di Warren Zanes (chitarrista dei Del Fuegos e stupendo narratore), molto ben tradotto da Alessandro Besselva Averame, è coinvolgente, appassionante, ricco di spunti, idee, osservazioni.

Si parla di "Nebraska" l'album inciso in solitudine nel 1982, dopo il successo di "The river" e poco prima della consacrazione di "Born in the Usa".
Un disco cupo, drammatico, ostico, acustico, chitarra e voce, che spiazzò fan e critici (per il sottoscritto rimane il migliore della sua produzione).
Scritto e registrato in un momento di profonda crisi esistenziale (come rivela e approfondisce il libro).

"Era pronto a fare il grande salto verso il successo, poi si fermò.
In pratica entrò in clandestinità...Nebraska era una pittura rupestre nell'era della fotografia".


E' noto l'amore del Boss per i Suicide, gruppo apparentemente antitetico alla sua opera ma che invece sono stati decisivi per l'incisione dell'album.

"I Suicide, c'era qualcosa in loro che mi attirava. Una musica pericolosissima che parlava ad alcune parti di te con le quali non sempre la musica riusciva a entrare in contatto. Ha influenzato parecchio "Nebraska", direi soprattutto il tono del disco. Nella loro musica c'era una spietatezza che mi affascinava e che volevo entrasse a fare parte della mia musica."

Zanes chiacchiera con Bruce, racconta particolari inediti, fa parlare collaboratori e amici, tesse un'affascinante tela che copre tutto il prima, durante e dopo un disco così unico, particolare e importante.

Warren Zanes scrive una delle considerazioni più illuminate su cosa vuol dire suonare in una band:

Fin dall'epoca dei primi Beatles, i gruppi rock rock 'n' roll rappresentavano il luogo in cui si identificavano molti giovani maschi americani.
Per quelli che arrivarono dopo, entrare a fare parte di una band significa ESISTERE.
La gente faceva dei sacrifici per riuscirci.
Io sapevo il motivo, se non altro perché lo sperimentavo dall'interno.
Quando mio fratello mi portò nei Del Fuegos, un sacco di cose cominciarono improvvisamente ad avere senso.
Ero parte di qualcosa.
E quando me ne andai, non parlandogli più per due anni dopo una serie di brutali discussioni?
Non facevo più parte di quella cosa.
O eri dentro o eri fuori.
Mi sono reso conto che le persone non parlano molto spesso della pazienza e della forza d'animo che occorrono per fare parte di un gruppo.
LE BAND TI POSSONO SPEZZARE IL CUORE."


Warren Zanes
Liberami dal nulla. Bruce Springsteen e Nebraska
Jimenez Edizioni
280 pagine
22 euro

mercoledì, aprile 17, 2024

Cymande

Riprendo l'articolo scritto per "Il Manifesto" lo scorso sabato.

“Getting it back: The Story of Cymande” del regista Tim MacKenzie-Smith (recentemente presentato al festival Seeyousound di Torino) è un documentario che riporta l'attenzione su un nome pressoché sconosciuto in Italia ma, in generale, altrettanto trascurato, pur essendo stato seminale per la musica in inglese degli anni Settanta.

Nati a Londra nel 1971, sono i figli putativi delle prime migrazioni caraibiche verso l'Inghilterra, iniziate simbolicamente con il famoso viaggio della “Empire Windrush”, la nave che il 22 giugno 1948 sbarcò 492 passeggeri (ufficiali, più, si presume, qualche clandestino) in arrivo da Giamaica e dintorni (le West Indies, così erano soprannominate ai tempi le colonie inglesi nei Caraibi).
La Gran Bretagna post guerra mondiale aveva bisogno di manodopera volonterosa, giovane e a basso costo e per questo migliaia di migranti arrivarono con la certezza di spostarsi semplicemente da una parte all'altra del regno britannico. Lo scopo diffuso era di guadagnare un po' di soldi e tornare nelle proprie terre a proseguire una vita maggiormente dignitosa.
La delusione fu drammatica. Sfruttati, discriminati per il colore della pelle, relegati in case malsane, in quartieri fatiscenti, esclusi dalla società, parìa, reietti, rifiuti.
Devastati moralmente, compromessi fisicamente da un clima antitetico a quello in cui erano nati, i nuovi cittadini in terra inglese si riorganizzarono lentamente in comunità culturalmente e socialmente autogestite, da cui incominciarono faticosamente a uscire anche i primi semi di una nuova dimensione artistica.

Negli anni Sessanta gruppi come Jimmy James and the Vagabonds, in chiave rhythm and blues, Millie Small in veste ska o Kenny Lynch (figlio di genitori delle Barbados e Giamaica, il primo a registrare una cover di Lennon e McCartney, “Misery” che i Beatles inserirono solo successivamente nel loro primo album “Please please me”.
Divenne poi attore e presentatore e comparve sulla copertina di “Band on the run” dei Wings di Paul), le oscure Sugarlumps (uno dei primissimi gruppi all black femminili in Uk), furono tra le prime, rare, avvisaglie della presenza della comunità nera caraibica in Gran Bretagna.
Anche se il primo nome a sbancare le classifiche fu quello degli Equals dell'anglo guyanese Eddy Grant (poi arrivato di nuovo al successo in chiave solista), band mista che con “Baby, come back” e “I get so excited” trovò successo e notorietà. Andò meglio nei primi anni Settanta con i The Real Thing o gli Hot Chocolate (con il loro grande successo “You sexy thing”), band con componenti nati in Giamaica, Trinidad, Bahamas, Grenada, con il reggae degli emigrati giamaicani Cimarons e dei Matumbi di Dennis Bovell, grande produttore, poi a fianco di Linton Kwesi Johnson.

Dopo la seconda metà degli anni Settanta Aswad, Steel Pulse, Misty in Roots crearono le basi per una scena British Reggae, il ritorno dello ska con Specials, Madness, Selecter, The Beat, rese la black music britannica una realtà consolidata. "Abbiamo rifiutato la cautela e la moderazione che i nostri genitori avevano in un ambiente razziale ostile. Eravamo la generazione ribelle: il reggae ci ha fornito la nostra identità". (Linton Kwesi Johnson).
"Ciò di cui cantavamo era la nostra esperienza a Londra. La gente copiava la Giamaica ma non raccontava la propria storia." (Brinsley Forde degli Aswad). In questo contesto si inserisce alla perfezione l'esperienza dei Cymande e il loro “nyah-rock”, come loro stessi chiamavano il loro strano mix di calypso, funk, soul, afro sound, reggae e, non di rado, pennellate jazz e umori latin.
“Eravamo tutti caraibici, quindi le influenze erano più o meno le stesse, anche se c'erano piccole variazioni perché alcuni membri provenivano dalla Giamaica, alcuni come me e Patrick dalla Guyana e da St. Vincent. Peter Serreo, lui è di Trinidad, quindi avevamo elementi diversi ma venendo tutti dalla regione dei Caraibi, c'era connessione con la musica“. (Steve Scipio, bassista e fondatore della band).

La band operò inizialmente dal 1971 al 1974, lasciando tre album, varie soddisfazioni a livello di critica e di pubblico ma con scarso riscontro commerciale, vittime di un momento sonoro in cui a dominare i gusti degli adolescenti erano il funk più danzereccio ma soprattutto glam, hard rock e progressive.
Il primo omonimo album, del 1972, è prodotto dal loro scopritore, John Schroeder, li porta nelle classifiche inglesi e americane e anche in tour con il soul man Al Green. Un disco immediato e urgente, bissato l'anno successivo da “Second time round”, più sofisticato e curato e dall'altrettanto buono “Promised lands” del 1974. Meno ispirato “Arrival” registrato poco prima dello stop ma pubblicato solo nel 1981.
La band porta avanti un messaggio prevalentemente pacifista (simboleggiato da una colomba che appare costantemente nelle grafiche dei loro dischi) ma non risparmia brani con connotazioni politiche e sociali.
“Abbiamo il nostro simbolo su tutte le copertine degli album. Significa pace e amore, che era il tipo di messaggio che stavamo cercando di trasmettere in quel momento. Quel simbolo, e la scelta del nome, avevano anche una connessione caraibica perché la parola Cymande era usata in un antico calypso caraibico e significava pace e amore. Abbiamo preso quella parola. Ci piaceva il suono ed era così connesso. Ci è piaciuta la colomba che si collegava bene anche con il messaggio di pace e amore.” (Steve Scipio).

Nel 1974 decidono di fermare il pur interessante percorso della band.

Non ci siamo sciolti, diciamo che abbiamo tolto la band dalla circolazione, subito dopo essere tornati dagli Stati Uniti e aver fatto due tour ben accolti, comprese le esibizioni al mitico Apollo Theatre (il tempio della black music americana ai tempi). Penso che siamo stati la prima band nera del Regno Unito, a suonarci. È stato un bel risultato e ne eravamo molto orgogliosi. Dopo averlo fatto, l’idea di tornare nel Regno Unito e non essere apprezzati dall’industria discografica non aveva senso. Sentivamo che era necessario restare al livello che avevamo raggiunto oppure fermarci per un po' e vedere cosa sarebbe successo e intraprendere una linea di condotta diversa. Dopo aver fatto certe cose, non dovresti tornare indietro. Dovresti provare ad andare avanti.
C'era anche l’idea che forse avremmo dovuto semplicemente provare a restare in America e lavorare nel circuito americano. Ma eravamo tutti padri di famiglia. Le nostre vite erano qui in Inghilterra e avevamo la consapevolezza che non potevamo ricominciare e farci una vita in America.”

La band dunque si prende una lunga pausa ma saranno gli anni Ottanta a riportare l'attenzione sui Cymande quando i loro brani incominciano ad essere suonati nelle serate Acid Jazz e vari nomi del rap americano ne campionano i groove, dai De La Soul, gli EPMD, KLF, perfino i Fugees.
Nel 1994 Spike Lee inserisce la loro “Bra” nel film “Crooklyn”.
Nel 2012, alla fine, vari membri della band originale (alcuni dei quali avevano abbracciato altre fortunate carriere di avvocato e giudice) si riuniscono in una nuova incarnazione, ricominciano a calcare i palchi di Europa e States, incidono un nuovo, discreto, album.

I Cymande sono tuttora in attività con date in Inghilterra e brevi tour in Europa. “Uscimmo di scena con i Cymande nel 1975. Dico spesso che l'industria musicale britannica non ha tempo per la musica nera e ancor meno per i musicisti neri. Ora abbiamo riportato in vita il gruppo e speriamo di poter fare rialzare l'attenzione verso il gruppo e il nostro messaggio perché questo è il nostro principio, il nostro orgoglio e la nostra passione.” (Steve Scipio).

martedì, aprile 16, 2024

Stefano I. Bianchi - Steve Albini. Big Black, Rapeman, Shellac

Personaggio pressoché unico nella storia della musica "pop/rock/alternativa".

Musicista con band a loro modo seminali, pur nella totale iconoclastia, provocatoria fino all'eccesso, fonico geniale (guai a indicarlo come produttore), umanamente controverso (eufemismo), difficilmente inquadrabile ma sempre lucido e spiazzante.

I dischi a cui ha lavorato Steve Albini sono più di 1.500...basti ricordare che tra i più famosi ci sono "Surfer Rosa" dei Pixies, "In Utero" dei Nirvana, "Rid of me" di PJ Harvey, "Tweez" degli Slint, "Pod" dei Breeders.

Il libro ne ripercorre in modo certosino ma mai pedante la storia artistica, riporta una bellissima intervista del 1997 per "Blow Up" e una serie di impietosi giudizi su molte band con cui ha lavorato.
Libro esaustivo e completo.

"...è difficile immaginare che oggi potrebbero nascere e avere successo band che si battezzano Rapeman o cantano quello che cantavano i Big Black. Se ciò sia un bene o un male lascio all'interpretazione personale di chi legge e ascolta".

Steve Albini su "Surfer Rosa" dei Pixies:
"Un raffazzonato polpettone da una band che al suo meglio suona un blando college rock da intrattenimento..non avevo mai incontrato quattro vacche tanto ansiose di essere portate in giro per l'anello al naso" .

"Quando una band mi chiama per registrare dico subito ai miei clienti che non voglio assolutamente essere citato nei loro bei dischettini. Farò semplicemente un buon lavoro per loro e questo non implica sobbarcarsi alcuna responsabilità per i loro fottuti gusti o errori."

Steve Albini. Big Black, Rapeman, Shellac
Director's Cut #34 (aprile 2024)
132 pagine b/n
13,00 euro

https://www.blowupmagazine.com/prod/steve-albini.asp

lunedì, aprile 15, 2024

Beyoncé

Riprendo l'articolo che ho pubblicato ieri per il quotidiano "Libertà".

Parrà strano ma da qualche parte in questo tribolato mondo, ci sono ancora problemi se un'artista di colore decide di dedicarsi a una musica piuttosto che a un'altra.
Capita a Beyoncé, pluridecorata da trentadue Grammy Awards (tra carriera solista e quella con le Destiny's Child), una delle musiciste più note al mondo, che ha “osato” inserire nel nuovo album brani di estrazione e sapore country.
Ovvero la musica “bianca” per antonomasia, colonna sonora del sud degli Stati Uniti, notoriamente conservatrice. La reazione è stata in alcuni casi sdegnata, in altri stupita, in altri ancora, ostile.

In realtà il nuovo album “Cowboy carter” fa parte di un'ambiziosa trilogia in cui la cantante rilegge parte dell'universo musicale americano.
Con il precedente “Renaissance” del 2022 si era dedicata alla dance, elettronica, musica da club, mettendo l'accento sulle tematiche Lgbt+.

Con il nuovo guarda con maggiore attenzione invece alle radici del suono americano, dal soul al gospel, al country, non dimenticando però il sound abituale che ne ha contraddistinto la carriera, a base di pop, elettronica, dance.
Ma il fatto di avere in qualche modo (soprattutto a livello iconografico, vedi la copertina con cappello e vestito da “cowboy” e bandiera americana, tipica estetica delle donne cavallerizze nei rodeo) interagito con un genere “riservato” ai bianchi ha fatto storcere il naso a non pochi.
Ovviamente il lavoro di marketing sapeva bene dove si andava a parare e che spingere su questo tasto avrebbe comportato qualche polemica ma soprattutto maggiore visibilità.

Beyoncé, approfondendo l'argomento, ha specificato che il ruolo dei cowboy di colore è sempre stato sottovalutato, se non ignorato, nella storiografia americana, e che, lei nativa del Texas, ne è sempre stata diretta testimone.
D'altronde la presenza di persone di colore tra gli allevatori di bestiame e lavoratori nello specifico ambito lavorativo oltre che nei rodeo, è risaputa e certificata ma, soprattutto nella cinematografia, la loro immagine è sempre stata cancellata.

“Sono cresciuta andando al rodeo di Houston ogni anno. Era un'esperienza fantastica, diversa e multiculturale, dove c'era qualcosa per qualsiasi membro della famiglia, tra cui grandi esibizioni e cosce di tacchino fritte.
Una delle mie ispirazioni è venuta proprio dalla storia sottovalutata dei cowboy neri americani. Molti di loro venivano chiamati "cowhands" e dovevano subire profonde discriminazioni e spesso obbligati a lavorare con i cavalli più indisciplinati.
Col tempo questi cavallerizzi di colore hanno preso parte a spettacoli incredibili e ci hanno aiutati a reclamare il nostro posto nella storia e nella cultura western.”


Insomma pare però che country e afroamericani non debbano andare d'accordo, per qualche strana regola. Anche se il blues nero ha spesso flirtato con il country e un nome come Ray Charles nel 1962 pubblicò un inaspettato e rivoluzionario “Modern Sounds in Country and Western Music” in cui mischiava il suo classico rhythm and blues con la musica “dei bianchi”.
Sconsigliato da tutti, Ray insistette nel perseguire il suo progetto e alla fine ottenne un successo clamoroso, aprendo molte porte all'integrazione culturale tra le due, ancora rigorosamente divise, comunità. Tornando alla nostra artista, ha chiaramente dichiarato:
“La mia speranza è che tra anni, la menzione della razza di un artista, per quanto riguarda il rilascio di generi musicali, sarà irrilevante “ e “questo non è un album country ma un altro album di Beyoncè”.
Nel disco spiattella una lunga serie di brani (ventisette, per un'ora e venti di musica, per quanto parte di questi siano brevi intermezzi parlati o con rumori e suoni) che danno spazio anche al country, che però non riveste un ruolo preponderante.
Sicuramente c'è “Jolene” uno delle canzoni più celebri della musica in oggetto, composta e incisa dalla regina del country, Dolly Parton, nel 1974.
Che ha apprezzato la scelta:
“Sono una grande fan di Beyoncé e molto contenta che abbia fatto un album country”.
Beyoncé si è premurata di cambiare una piccola ma alquanto significativa parte del testo (in cui una donna prega un'avvenente spasimante del marito di non portarglielo via) che diventa da supplichevole a ordine perentorio:
“Ti prego, per favore, non prendere il mio uomo” di Dolly Parton si trasforma in “Ti avverto, non venire a prendere il mio uomo”.

Nel disco non c'è solo musica ma anche una presa di posizione sociopolitica ben chiara.
Come nella bella e riuscita cover di “Blackbird” dei Beatles, composta da Paul McCartney nel 1968 in omaggio alla rivendicazione dei diritti degli afroamericani e non a caso ripresa nell'album.
Ad accompagnarla Tanner Adell, Brittney Spencer, Tiera Kennedy e Reyna Roberts, musicisti di country di colore.
Un album completo, complesso, personale, profondo, destinato a rimanere tra le vette dell'anno in corso.

Beyonce Knowles, nasce a Houston, Texas, il 4 settembre 1981, da una famiglia con una predisposizione artistica già spiccata. Padre discografico, madre stilista, si distingue vincendo un talent canoro a soli sette anni, passando attraverso la classica “scuola” del coro gospel della chiesa locale.
Fu proprio il padre ad allestire e a gestire il nucleo di quello che diventarono poi (con Kelly Rowland, LaTavia Roberson e LeToya Luckett) le Destiny's Child.
Il primo album frutta la hit "No, No, No", il secondo "The writing's on the wall" ottiene sette dischi di platino, due nomination ai Grammy e un Image Award.
La band cambia formazione ma non perde il gusto per il successo.
“Ho sacrificato molte cose e sono scappata da ogni possibile distrazione. Mi sentivo come una giovane donna di colore che non poteva sbagliare. Ho sentito la pressione dall'esterno e gli occhi degli altri che mi guardavano inciampare o fallire. Non potevo deludere la mia famiglia dopo tutti i sacrifici che hanno fatto per me. Ciò significava che ero l'adolescente più attenta e professionale e sono cresciuta in fretta. Volevo rompere tutti gli stereotipi della superstar nera, che fosse vittima di droghe o alcol o dell'assurdo malinteso che le donne nere fossero arrabbiate. Sapevo che mi era stata data questa straordinaria opportunità e mi sentivo come se avessi una possibilità. Mi sono rifiutata di rovinare tutto, ma ho dovuto rinunciare a molto.”

Intanto assapora anche il gusto di un percorso solista parallelo con l'album del 2003 "Dangerously in love" con risultati di ottimo livello. Anche la carriera cinematografica la attira e le porta fortune e successo.
La band intanto si scioglie nel 2005 (si riunirà sporadicamente) e la lascia conquistare da sola il mondo.
Nel 2008 sposa il rapper Jay-Z da cui avrà un figlio nel 2012 e due gemelli nel 2017. La vita professionale è un susseguirsi di vendite stratosferiche (oltre sessanta milioni di dischi venduti) , record battuti e conquistati, una visibilità assoluta in tutto il mondo. Una popolarità che sfrutta per iniziative benefiche e per sensibilizzare fan e non su tematiche talvolta ostiche come il sessismo, diritti della comunità LGBTQ+, povertà e la condizione femminile. Nonostante il suo impegno non sia sempre del tutto gradito a gruppi femministi che le rimproverano l'esibizione e la presunta strumentalizzazione del suo corpo.
Si è schierata con il movimento Black Lives Matter, ha devoluto grandi cifre per bisognosi durante la pandemia.
“Nel 2013, ho fondato BeyGOOD per condividere la mentalità secondo cui tutti potremmo fare qualcosa per aiutare gli altri, qualcosa che i miei genitori mi hanno instillato fin dalla giovane età, per ispirare gli altri a essere gentili, caritatevoli e buoni. Ci siamo concentrati su molte aree di bisogno, tra cui il soccorso in caso di uragani, l'istruzione con borse di studio per college e università negli Stati Uniti, un programma di borse di studio in Sudafrica, i diritti delle donne, il sostegno alle imprese delle minoranze, l'assistenza alle famiglie con bisogni abitativi, le crisi idriche, l'assistenza sanitaria pediatrica e sollievo dalla pandemia.
BeyGOOD è diventata un'iniziativa mondiale per fornire supporto a livello nazionale e internazionale.
È sempre stato importante per me aiutare gli altri e avere un impatto positivo sul mondo.”


Beyoncé riveste l'importante ruolo di un'artista pop che prende posizione, si schiera, non teme di perdere consenso ma anzi scrive pagine importanti in un momento così precario per i diritti (ovunque calpestati e rimessi in discussione), rivolgendosi a un pubblico immensamente ampio e “generalista”.

giovedì, aprile 11, 2024

Islam, jazz e rock

Riprendo l'articolo che ho pubblicato la scorsa domenica nel quotidiano "Libertà" nell'inserto "Portfolio" curato da Maurizio Pilotti.

Difficile se non impossibile pensare di conciliare le visioni filosofiche di rock e religione islamica, quanto di più antitetico si possa pensare (nella loro accezione più ampia e rigida) e reciprocamente ostili per mille, noti, motivi.
Ovviamente in questa sede non si vogliono approfondire, né fare cenno a contenuti religiosi e di fede, non avendone competenza, conoscenza ed essendo, come è immaginabile, un cosiddetto “terreno minato”, soprattutto quando si entra in contesti estremisti.
Ci si limiterà alle connessioni puramente artistiche.
Approfondendo, scavando e cercando, si possono trovare sorprendenti punti di incontri, seppur non particolarmente frequenti.

Innanzitutto è il jazz americano che per primo incrocia l'Islam, a cui si converte almeno un centinaio di musicisti.

Tra i pionieri Yusuf Lateef, originariamente William Emmanuel Huddleston, vicino a un piccolo gruppo statunitense di musulmani Ahmadiyya che ispiravano il loro credo ad Allah ma soprattutto alla non violenza. A lui seguirono grandi nomi del jazz come Art Blakey (che assunse il nome di Abdullah Ibn Buhaina) che si convertì all'Islam a fine anni Quaranta, dopo un viaggio in Africa. Ahmad Jamal (precedentemente Fritz Jones) ci arrivò nel 1950:
“Ho abbracciato l'Islam perché mi condusse dall'oscurità alla luce e mi diede una direzione”.

Il capolavoro del jazz (e non solo), “A love supreme” di John Coltrane, pubblicato nel 1964, fu ispirato dalla stretta amicizia che il saxofonista strinse con l'attivista e politico Malcolm X, ai tempi membro della Nation of Islam di Louis Farrakhan, da cui uscì per essere assassinato, nel 1965, si è sempre sospettato, proprio da ex compagni d'organizzazione.
Anche Charlie Parker, Pharoah Sanders, Dizzy Gillespie, McCoy Tyner, per citare i più famosi, si avvicinarono alla religione musulmana, più o meno direttamente e ne furono influenzati musicalmente.

Negli anni Sessanta l'Islam negli Stati Uniti, ancora fortemente pervasi da razzismo e discriminazione, era un elemento unificatore per la popolazione afroamericana, perché abbatteva le barriere razziali e dava ai suoi seguaci uno scopo e una dignità.
In questo senso le relazioni con la “musica nera” sono state frequenti, soprattutto nell'ambito hip hop, a partire dagli inventori del genere, i new yorkesi Last Poets, principali ispiratori di Gil Scott Heron, che, insieme a loro, si prese la nomea di “padre del rap”.
Poi seguiti da coloro che furono tra le fondamenta del primo hip hop americano, come Rakim, Afrika Islam, Q-Tip, Big Daddy Kane, Nas, Mos Def, Snoop Dogg.
Anche artisti più famosi come Public Enemy e Wu Tang Clan ebbero contatti più o meno espliciti con l'Islam mentre Ice Cube, già membro dei NWA, si convertì direttamente spiegandolo con un semplice “mi definisco un musulmano naturale perché siamo solo io e Dio”.

Uno dei massimi esponenti della musica in arrivo dall'Africa, il senegalese Youssou N'Dour, oltre ad essere sempre impegnato politicamente contro razzismo, disuguaglianze e discriminazioni ha sempre seguito con il massimo rigore i precetti musulmani compresa l'astensione da alcolici e fumo.

In ambito rock il fenomeno è stato più limitato, probabilmente a causa dell'ossimoro di accostare un contesto genericamente sempre ascrivibile alla famosa triade “sesso, droga e rock 'n'roll” con ben altre direttive e scopi di vita. Il caso più famoso è probabilmente quello di Cat Stevens.
Una carriera ben avviata e di successo negli anni Sessanta, nella Swinging London godereccia e viziosa, dei cui eccessi beneficia sempre molto volentieri. Ottiene notevole visibilità e diversi successi di classifica.
Quando si salva a stento da un annegamento rivede la sua vita in un'altra ottica, legge una copia del Corano che gli portò il fratello da Gerusalemme e nel 1977 si converte all'Islam.
Abbandona per lungo tempo la carriera musicale, tornando alla ribalta in casi controversi, quando viene lanciata la “fatwa” allo scrittore Salman Rushdie.
Yusuf Islam, suo nuovo nome, si dissocia ma viene male interpretato e severamente criticato da colleghi e stampa.
Viene inserito in una lista di indesiderati in America, dopo gli attentati dell'11 settembre, anche se in questo caso saranno in molti, compreso il ministro degli esteri inglesi a correre in suo supporto. Successivamente donerà i proventi di un suo disco alle vittime degli attentati.
Fonda anche istituti benefici e torna nel 2006 a incidere dischi (portando in molte canzoni tematiche religiose) e a suonare, partecipando anche, nel 2014 al Festival di Sanremo.

La tormentata vita della sfortunata cantante irlandese Sinead O' Connor contempla anche la conversione all'Islam nel 2018, con il nome Shuhada' Davitt (che non userà mai artisticamente).
“Sono orgogliosa di essere diventata musulmana. Questa è la conclusione naturale di un viaggio di ogni teologo intelligente. Lo studio di tutti i testi porta all'Islam e rende tutti gli altri inutili. Mi sarà dato un altro nome. Il mio nome adesso è Shuhada”. Sinead ci ha lasciati nel 2023, neppure la nuova strada religiosa abbracciata diede tregua ai suoi fantasmi.

Il cantautore e chitarrista inglese Richard Thompson si convertì a metà degli anni Settanta, dopo una bella carriera con la folk band dei Fairport Convention.
Tuttora musulmano Sufi, la sua credenza religiosa non ha mai influenzato la musica, l'abbigliamento né gli ha fatto cambiare nome.
Pare che sia stato indotto a questa scelta dai Mighty Baby, band con cui collaborò.

Ex membri di una dei gruppi mod beat più interessanti degli anni Sessanta, gli Action (prodotti dal “quinto Beatles”, George Martin), abbracciarono tutti la filosofia Sufi, cambiando radicalmente la direzione musicale, prima orientata verso un psichedelia con toni quasi hard, passando invece ad atmosfere più “spirituali”.
Un cambiamento radicale che sorprese i fan e chiuse sostanzialmente la loro carriera.

E infine un personaggio sotterraneo come Twink Adler, protagonista della scena psichedelica inglese prima con i Tomorrow e i Pretty Things poi con i Pink Faires con la brevissima esperienza degli Stars con l'ex Pink Floyd Syd Barrett. Musicista e agitatore culturale, negli anni 2000 si converte all'Islam con il nome di Mohammed Abdullah e prende definitiva residenza a Marrakech in Marocco.

Molto singolare la vicenda della scena Taqwacore americana. Nel 2009 vine pubblicato il libro di Michael Muhammad Knight con il titolo "The Taqwacores", che uscirà l'anno dopo in Italia come “Islam punk” con il palese riferimento al brano dei CCCP “Punk Islam”. Un divertentissimo resoconto della vita di una stramba e immaginaria comunità di Buffalo, in America, composta da punk musulmani, devoti ad Allah e al Corano ma, allo stesso tempo, amanti dei piaceri comuni (sesso, droga, alcol, punk) che male si accoppiano con i precetti sacri. "Il nostro gruppo comprendeva un fornicatore ubriacone con la cresta, un tossico, un omosessuale e me, qualunque cosa fossi. Umar era l'unico vero musulmano."
La vicenda finirà malamente culminando con un concerto di band “taqwacore” (ovvero hardcore punk con testi ispirati all'Islam), in cui succederà di tutto.
Il libro fece nascere una piccola scena hardcore punk (che fece il paio con quella “Krishnacore”, devota in vece ai principi Hare Khrisna), che si ispirò alle sue pagine, prendendone il nome, con gruppi, artisticamente marginali, come The Kominas, 8-bit, Vote Hezbollah Diacritical e Secret Trial Five.
Precedentemente in Inghilterra c'erano già stati i Fun-Da-Mental a mischiare hip hop, rock e post wave con precetti islamici, mutuati dal Corano, a sottolineare il ruolo di emarginazione dei musulmani.
Incidevano per la Nation Records, etichetta che produceva dance, elettronica, gruppi caraibici e asiatici, tenendo conto di precetti musulmani come l'avversione per alcol e sostanze stupefacenti.

Infine meritano una citazione una serie di band che arrivano da paesi musulmani e che, pur suonando metal o comunque rock durissimo: parliamo degli iraniani Tarantist, degli iraqeni AritmoTh, dei libanesi The Kirdz, degli indonesiani Purgatory e Tengkorak. Un contesto magmatico, difficile da definire e circoscrivere, da approfondire per capirne di più, valutato in questa sede volutamente in chiave rigorosamente musicale, comunque fonte di interesse, a causa della sua particolarità.

mercoledì, aprile 10, 2024

Francesco Massaccesi/ Paolo Massagli - Janis Joplin

Affascinante graphic novel, molto bene illustrata (in bianco e nero da Paolo Massagli) e sceneggiata (da Francesco Massaccesi) in cui si intrecciano i ricordi di alcuni soldati feriti in un ospedale del Vietnam in guerra e la vita di JANIS JOPLIN.

Sullo sfondo/in primo piano un'America in lotta per la pace, per i diritti civili, per un futuro migliore e più giusto.
Che ancora non è arrivato.

Francesco Massaccesi/ Paolo Massagli
Janis Joplin
Inkiostro Editore
48 pagine
20 euro

martedì, aprile 09, 2024

Back to Africa. Il ritorno alle radici dei musicisti afroamericani

Riprendo l'articolo che ho scritto sabato scorso per "Il Manifesto".

A cavallo tra la fine degli anni sessanta e l'inizio dei Settanta la lotta per il riconoscimento dei diritti degli afroamericani raggiunse l'apice, spesso in modo anche violento, sia come reazione ai soprusi che come azione propositiva.
Dagli insegnamenti di Martin Luther King alla pulsione delle idee di Malcolm X e all'attività delle Black Panthers il conflitto ideologico assunse aspetti spesso particolarmente estremi, tra i quali prese piede anche la rivalutazione delle teorie del politico e scrittore Marcus Garvey, fondatore nel 1914 della Universal Negro Improvement Association, che promosse nel 1920 una campagna per il ritorno in Africa di 30.000 famiglie afroamericane. Il progetto fallì clamorosamente, fu poi arrestato per bancarotta, espulso dagli Stati Uniti e tornò nella natìa Giamaica continuando a predicare il ritorno in Africa di tutti i neri del mondo, che non dovevano sentirsi cittadini dei paesi in cui risiedevano, ma africani.

Un'idea che colpì numerosi artisti afroamericani, attirati sia dall'idea politica che dalla musica e cultura che stava arrivando progressivamente dall'Africa, in cui, paradossalmente, il blues e il soul, nati da matrici africane, era tornati nelle radio e nei gusti dei giovani, grazie ai colonizzatori britannici e francesi che li trasmettevano in radio e suonavano alle loro feste.
L'aspetto più complesso era quello logistico, sia per le grandi distanze che per i costi elevati, la scarsità tecnologica e l'impreparazione locale nella gestione degli eventi, a cui spesso si univano problematiche politiche e corruzione.
Ma molti artisti riuscirono ugualmente ad arrivare nel luogo delle loro agognate radici, attraverso esibizioni singole o festival.

Louis Armstrong aveva già anticipato i tempi nel 1956 suonando due concerti ad Accra in Ghana, dopo essere stato accolto all'aeroporto da migliaia di persone unendosi subito a una band che suonava musica locale, riconoscendo all'interno di quelle note le origini del jazz.
E quando vide una donna che era l'immagine di sua nonna, si convinse che i suoi antenati arrivavano dalla costa ovest dell'Africa.

James Brown sbarcò in Nigeria alla fine del 1970 (poco dopo la conclusione della tragica guerra civile in Biafra) con i J.Bs e forte del successo del singolo "Sex Machine", uscito da qualche mese. Il tour influenzò tantissimo la scena musicale locale che esplose con decine di nuove band.
Tra il pubblico anche un ammirato Fela Kuti che si ritrovò poi James Brown e la band come spettatori a uno dei suoi concerti al suo locale The Shrine. Tony Allen, il grande batterista di Fela, “inventore” dell'afrobeat, rivelò che si trovò a fianco David Matthews, l'arrangiatore di James Brown:
'Osservava il movimento delle mie gambe e delle mie mani, e prendeva nota. La band prese molto da Fela quando vennero in Nigeria. È come se entrambi si influenzassero a vicenda. Fela è stato influenzato dall'America, James Brown dall' Africa.”
Il bassista William 'Bootsy' Collins ricorda:
“Fela aveva un club a Lagos, e quando ci andammo ci trattarono come dei re. Gli dicemmo che erano i funky cats più incredibili che avevamo mai sentito in vita nostra. Noi eravamo la band di James Brown, ma siamo stati completamente spazzati via! È stato un viaggio che non scambierei con nulla al mondo.”
Pare che Fela fosse inizialmente diffidente nei confronti di Brown poiché pensava che stesse cercando di rubargli il sound, ma tali paure furono velocemente dissipate.
Fela Kuti confermò il suo animo malfidente nel 1973 quando a Lagos arrivò Paul McCartney con gli Wings a registrare il suo capolavoro “Band on the run”.
Il “Black President” pretese di ascoltare le registrazioni in anteprima per verificare che Paul non stesse perpetrando un furto della musica africana.

Il 6 marzo del 1971 si tenne ad Accra in Ghana il “Festival Soul to Soul” per festeggiare l'anniversario (il quattordicesimo) dell'indipendenza dello stato africano dall'Impero Britannico.
I manifesti riportavano la dicitura “Where it all started” (dove tutto è incominciato) a rimarcare il legame ancestrale tra afroamericani e Africa.
Tra gli invitati in tanti rifiutarono, come Aretha Franklin, James Brown, Booker T & The MG's, Louis Armstrong e Fela Kuti.
Arrivarono in compenso altre eccellenze della black music come Wilson Pickett, Ike & Tina Turner, The Staple Singers, Santana, Roberta Flack, The Voices of East Harlem, affiancati da numerosi artisti locali tra cui Kwa Mensah, tra i pionieri dell'Highlife sound.
Al concerto parteciparono circa 100.000 persone che già erano davanti al palco ben prima dell'inizio previsto per le 15 (poi slittato alle 17.30).
I concerti furono applauditi e apprezzati ma in molti notarono la compostezza quasi rigida del pubblico, attento ad ascoltare e che solo con Tina Turner e Wilson Pickett, dopo ripetuti inviti, incominciò a ballare.
Mavis Staples riportò le stesse impressioni che avevano caratterizzato la visita di Louis Armstrong:
"Mi sentivo come se vedessi i miei genitori ovunque. Da piccola vedevo mia nonna prendere un ramoscello da un albero e morderlo o intingerlo nel tabacco da fiuto. Lo chiamava "bastoncino da masticare". E ho visto questa donna sul traghetto in Ghana fare proprio quello che faceva la nonna. È stato come tornare alla tua infanzia in un altro paese.”
Tina Turner e Mavis Staples furono colpite in particolar modo dalla visita che fecero nei luoghi in cui venivano imprigionati gli schiavi prima di essere portati nelle Americhe.
Mavis "Quella è stata l'esperienza più triste e pesante... ti scendevano le lacrime dagli occhi. C’era una sensazione inquietante, molto inquietante. A volte a tarda notte si sentivano lamenti e gemiti che arrivavano da lì. I loro spiriti sono ancora qui”.

Tina Turner tornò in Africa per suonare nel Sud Africa dell'apartheid nel 1979, poco dopo aver divorziato da Ike Turner, esibendosi in diverse date, tra settembre e dicembre, a Durban, Johannesburg e Cape Town.
Durante il suo viaggio le fu conferito lo status di “bianca onoraria”, scatenando le critiche dei neri sudafricani, che la accusarono di sostenere l’apartheid. Nel 1985 si pentì di aver accettato il quel titolo. “All’epoca ero ingenua riguardo alla politica in Sud Africa.
Tuttavia, negli ultimi mesi ho rifiutato diverse offerte lucrose per esibirmi in quel paese o in Botswana. Continuerò a rifiutare tali offerte finché prevarranno le circostanze attuali”.

Tornerà nel 1996 dopo la fine dell'apartheid.

Anche Ray Charles nel 1981 suonò a Sun City in SudAfrica, in un concerto aperto formalmente anche i neri ma dai costi altissimi e proibitivi per la maggior parte di loro. Ray in qualche modo pensò di compensare la sua presenza a Sun City organizzando un concerto anche a Soweto ma la comunità locale respinse fermamente e minacciosamente l'idea e l'esibizione fu cancellata. Per smorzare le polemiche dichiarò:
“Ho espresso più volte la mia contrarietà al regime del SudAfrica. In questi anni il tema dell'apartheid non è mai stato particolarmente popolare nell'opinione pubblica, neanche tra i neri americani. Ma io non ho mai perso interesse verso la questione. E per questo non posso scusarmi di aver suonato in SudAfrica con migliaia di neri sudafricani che con gli occhi bagnati di lacrime hanno espresso la loro gratitudine per averlo fatto. Questo tour ha rappresentato il primo concerto totalmente integrato in città come Johannesburg o Cape Town senza che io abbia suonato per le somme che abitualmente si prendono suonando a Sun City. Ho suonato con un'orchestra che aveva un asiatico, due latini, otto bianchi e sei neri, tutti insieme sul palco, nel bus, negli hotel, sempre insieme, senza barriere e divisioni. Non mi scuserò mai per aver sempre combattuto il bigottismo sia esso in SudAfrica, in America o in qualsiasi altro posto del mondo“.

Dal 22 al 24 settembre si tenne a Kinshasa, allora Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo, il Festival Zaire 74.
Concepito dal trombettista sudaricano Hugh Masekela per approfittare dell'incontro di pugilato del secolo, il “Rumble in the jungle” tra Alì e Foreman, con lo scopo di unire le culture africana e afroamericana, fu messo in dubbio da un infortunio di Foreman che posticipò l'incontro di sei settimane ma si svolse ugualmente, coronato da un grande successo con 80.000 spettatori.
Gli Usa schierarono grandi calibri della musica soul come James Brown, Bill Withers, B.B. King, Fania All Stars e gli Spinners, oltre alla star cubana Celia Cruz, l'Africa rispose con Miriam Makeba, Zaïko Langa Langa, TPOK Jazz e Tabu Ley Rochereau.
Fu una grande e riuscita festa.

Organizzato a Lagos, in Nigeria, il Festac 77 (Il Secondo Festival Mondiale delle Arti e della Cultura Nera e Africana, il primo si era tenuto a Dakar in Senegal nel 1966) è stato il culmine culturale del movimento panafricano, riunendo musicisti, ballerini, stilisti, artisti e scrittori in rappresentanza di 70 paesi dell'Africa e della diaspora africana.
Si svolse dal 15 gennaio al 12 febbraio 1977.
Quattro settimane di eventi in 10 sedi, tra cui il Teatro Nazionale da 5.000 posti appositamente costruito; 15.000 partecipanti alloggiati in 5.000 appartamenti e hotel sempre tutti costruiti per l'evento; una rete di autostrade creata per evitare la consueta congestione del traffico di Lagos.
Ci sono voluti 12 anni di pianificazione, durante i quali la Nigeria è passata attraverso una guerra civile, a un assassinio presidenziale e a due colpi di stato.
Il costo finale lievitò a 400 milioni di dollari, corrispondente a quasi 2 miliardi di dollari odierni. Il coordinatore di Festac, il professor Chiki Onwauchi, dichiarò:“Se si stanno spendendo miliardi per tenere separati i neri è impossibile ritenere di spendere troppi soldi per riunire i neri”.
L'evento attirò artisti da tutto il mondo, tra cui musicisti come Stevie Wonder, Sun Ra, Donald Byrd, Archie Shepp Gilberto Gil, Fela Kuti, la Trinidad All-Stars Steel Band, Mighty Sparrow, Miriam Makebae, la band funk afro-caraibica di Londra, Osibisa, parte di una delegazione britannica che, nella cerimonia di apertura, ha sfilato lungo la pista dello Stadio Nazionale dietro lo striscione “Black People of Great Britain”.
Stevie Wonder rimase a Lagos dopo la chiusura del festival, quando, con Makeba, ha organizzato un collegamento satellitare per ricevere i suoi quattro Grammy Awards per l'album "Fullfillingness" dal vivo da Lagos. Il loro piano era quello di portare Festac all’attenzione internazionale, dopo che i media mondiali lo avevano ampiamente ignorato.
Sfortunatamente, le apparizioni del cantante sono state in gran parte ricordate per le parole di Andy Williams (che presentava lo spettacolo di premiazione) che gli chiesto: "Riesci a vederci?".
Fela Kuti, dopo avere aderito, condannò l'evento come esercizio di propaganda e si ritirò, organizzando un suo festival al The Shrine.
Il governo scoraggiò gli artisti e i visitatori del FESTAC dall'andare al club, ma molti li ignorarono, incluso Stevie Wonder, che proprio nel club fece il suo primo concerto nigeriano.

Stevie ha successivamente più volte annunciato la decisione di trasferirsi per sempre in Ghana per sfuggire al razzismo crescente in America ma al momento non ha mai attuato il suo proposito.

Significativa la testimonianza della fotografa e giornalista Marylin "Soulsista" Nance, cresciuta nel Bronx ascoltando le parole di Malcolm X e la musica di Nina Simone, che volò in Nigeria per documentare l'evento. Seguace, come molti altri afroamericani, tra i 60 e i 70 delle teorie di Marcus Garvey, si trovò a contatto con una realtà diversa: "Andai in Nigeria pensando, io sono un'africana. Sono stata portata via da quel continente ma eccomi tornata. Ma quando arrivai mi resi conto che non eravamo considerati africani ma americani. Per la prima volta realizzai di essere un'americana".

Bob Marley approdò in Africa nel 1978.
Dopo una doverosa visita in Etiopia, la nazione di Hailè Selassìe, considerato dai Rastafariani il rappresentante di dio in terra, festeggiò il primo anno di indipendenza dello Zimbabwe, suonando il 18 aprile del 1980 allo stadio Rufaro ad Harare (che aveva appena cambiato nome cancellando Salisbury, quando la nazione si chiamava ancora Rhodesia), pagandosi il viaggio e l'affitto di tutta l'impiantistica. Le condizioni logistiche erano pessime ma riuscirono a rimediare.
Il disappunto fu grande quando si rese conto che il concerto era riservato alla nuova nomenclatura del paese, con tanto di invitati eccellenti come il Principe Carlo e Indira Ghandi.
Il pubblico cercò di sfondare, la polizia replicò con cariche e gas lacrimogeni che interruppero il concerto.
Bob Marley decise allora di suonare anche il giorno successivo, in un concerto aperto alla popolazione questa volta davanti a 80.000 persone. Ai primi di gennaio Marley aveva tenuto due controversi concerti nel Gabon del dittatore Omar Bongo, davanti a 5000 persone, scelte nell'alta società del paese. Pare che la ragione fosse la storia d'amore con figlia di Bongo, Pascaline, che gestì il breve tour.

Alla fine del 1974 chi realizzò in pratica i propositi di tanti artisti e attivisti neri che dopo una breve (e remunerata) visita se ne tornavano nella tanto odiata patria, fu Nina Simone che si trasferì a Monrovia, capitale della Liberia, convinta dall'amica Miriam Makeba.
“Forse là avrei trovato un po’ di pace, oppure un marito. Forse sarebbe stato come tornare a casa”.
Erano anni in cui il paese della costa ovest africana viveva un momento sereno con il presidente progressista Tolbert che cercava di mettere a punto una riforma sociale che riducesse le diseguaglianze, incoraggiando la libertà d'espressione. Nina Simone si trovò molto bene, con la figlia Lisa al seguito, suona raramente, solo per pochi amici e si godette una vita tranquilla.
"Sono profondamente consapevole di essere entrata in un mondo che avevo sognato per tutta la vita, e che è un mondo perfetto, ora sono a casa, ora sono libera”.
Se ne andrà nel 1977, richiamata dal desiderio di tornare a suonare, registrare, fare quello che aveva sempre fatto. Poco tempo la Liberia sprofonderà in una serie di feroci dittature e lunghe guerre civili.

Successivamente i musicisti americani ed europei hanno incominciato con più frequenza a suonare in Africa e, a loro volta, quelli africani ad arrivare più agevolmente nel resto del mondo.
Le teorie di ricongiungimento alle radici ancestrali hanno progressivamente perso vigore e importanza ma probabilmente la migliore considerazione l'ha fatta una ragazza kenyota anonima, commentando un video di Kendrick Lamar realizzato durante un suo soggiorno in Ghana.
"Non mi piace davvero il modo in cui le celebrità americane descrivono l'Africa, come questa terra feticizzata che funge da nient'altro che uno sfondo estetico per loro di fronte al loro conflitto interno o qualunque viaggio mentale e personale stiano attualmente attraversando".
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